C’è una nuova ipotesi sulle cause dell’Alzheimer

Da quando, nel 1906, il neuropatologo tedesco Alois Alzheimer osservò, con il contributo del giovane ricercatore italiano Gaetano Perusini, la presenza di una specie di “cemento” sui neuroni del cervello di Auguste Deter, una 55enne deceduta dopo aver manifestato perdita di memoria e altre forme di declino cognitivo, gli accumuli di placche di proteina beta-amiloide sono stati considerati per decenni la causa scatenante della demenza che da Alzheimer ha preso il nome.

Oggi però sappiamo che la cosiddetta ipotesi amiloide fa acqua da tutte le parti. I farmaci che prendono di mira gli aggregati di amiloide non riescono a migliorare i sintomi dei pazienti, senza contare che esistono persone anche molto anziane che presentano placche cerebrali in abbondanza ma che non manifestano alcun sintomo dell’Alzheimer.

Due facce della stessa medaglia. Quando la beta-amiloide si accumula nei depositi insolubili che chiamiamo placche, calano i livelli della forma originale e solubile di questa proteina, la cosiddetta beta-amiloide 42, che ha un ruolo importante per la memoria e le altre funzioni cognitive. Secondo uno studio da poco pubblicato sul Journal of Alzheimer’s Disease, le placche dell’Alzheimer sarebbero proprio la conseguenza della riduzione di questa forma “buona” e utile della proteina amiloide, che in determinate condizioni patologiche si trasforma appunto in accumuli insolubili.

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Diverse ricerche mostrano che i pazienti con i livelli più bassi di beta-amiloide 42 sono anche quelli che riportano i peggiori esiti clinici della malattia. Nel nuovo lavoro, gli scienziati dell’Università di Cincinnati e del Karolinska Institute di Stoccolma si sono chiesti quale di questi due fattori collegati – il rapido progredire delle placche o piuttosto la rapida riduzione della proteina, sia più deleterio per il cervello con Alzheimer.

Una carenza che fa danni. Lo hanno fatto studiando un gruppo di pazienti che, a causa di una rara mutazione genetica, sono più predisposti all’espressione di pacche amiloidi nel cervello, e che sono quindi considerati a rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer. La risposta è che la scarsità di beta-amiloide 42, ossia della versione funzionale della proteina, è più pericolosa per il cervello dell’accumulo di placche amiloidi sui neuroni.

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I partecipanti sono stati monitorati per tre anni e sottoposti ad analisi periodiche. Coloro che mostravano i livelli naturalmente più alti di beta-amiloide 42 nel fluido cerebrospinale (il liquido che circonda il cervello e il midollo spinale) sono risultati protetti a livello cognitivo, indipendentemente dal numero di placche accumulate nel cervello.

La memoria e le altre funzioni superiori, come la programmazione e la soluzione di problemi, sono rimaste preservate per la durata dello studio, pur trattandosi, sulla carta, del gruppo di pazienti potenzialmente più a rischio.

Ricadute terapeutiche. Come spiegato su The Conversation, i risultati dello studio sono in linea con i lavori che hanno dimostrato il ruolo protettivo di questa proteina nella sua forma solubile per il cervello, e anche con il fatto che in alcune forme rare di Alzheimer di origine genetica, i pazienti possono sviluppare demenza avendo bassi livelli di beta-amiloide 42, ma nessuna placca. Gli accumuli di amiloide potrebbero dunque, come largamente teorizzato, non essere la causa scatenante della malattia; mentre la perdita di amiloide funzionale potrebbe esserlo.

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Se confermata da nuovi studi, quella che per ora è soltanto un’ipotesi potrebbe aprire la strada a nuove strade farmacologiche per contrastare la malattia di Alzheimer, dopo tanti anni di trial clinici deludenti. I futuri test potrebbero focalizzarsi sul riportare i livelli di beta-amiloide 42 a valori normali, nei pazienti in cui sono bassi – magari utilizzando analoghi proteici che tendano meno a degenerare in aggregati insolubili. Forse non a caso, in passato, i trial farmacologici che puntavano a ridurre la beta-amiloide 42 pensando che così non avrebbe potuto formare placche sono risultati persino dannosi per i pazienti. 

Fonte: focus

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