Come funziona una vertical farm o fattoria idroponica

Oggi è il giorno del raccolto. Sono le 8 del mattino, e Davide gira una manopola sul quadro di comando. Dalla cima di una parete si apre uno sportello, da cui esce un pianale colmo di piante di lattuga verdi brillanti, mature al punto giusto. Davide schiaccia un pulsante, e il vassoio con le piante scende fino al piano terra con un montacarichi. Davide indossa un camice bianco con sovrascarpe, guanti, mascherina e cuffietta. Osserva la qualità del raccolto, digitando su un tablet la forma e il colore dei cespi.

Poi il vassoio, caricato su carrelli, sarà trasferito in una sala refrigerata, dove le piante saranno tagliate, controllate e impacchettate. Nel pomeriggio le confezioni di insalata saranno nelle celle frigorifere dei grossisti, pronte per essere vendute il mattino dopo.

Davide non sta lavorando in un campo. È in un capannone industriale alla periferia di Melzo, a est di Milano. È la sede di Agricola Moderna, la più grande fattoria verticale commerciale d’Italia, di cui Davide Sosso, agronomo di 38 anni con postdottorato alla Stanford University, è responsabile della ricerca e sviluppo. Nella camera di coltura dello stabilimento, un box metallico alto 8 metri – quasi come un palazzo di 3 piani – ci sono 800 m2 di vassoi sovrapposti, colmi di lattughe e brassicacee illuminati da luci Led viola.

Carrello con insalate prelevate dagli scaffali della camera di coltura di Agricola Moderna, a Melzo.

Carrello con insalate prelevate dagli scaffali della camera di coltura di Agricola Moderna, a Melzo.

Le più grandi del mondo. Non è un esperimento da laboratorio: le 2 tonnellate di insalate prodotte ogni mese, con zero pesticidi, sono vendute da una rete di ipermercati della zona e da un sito web di prodotti agricoli. E non è un caso isolato: in aprile, a Cavenago, sempre in Lombardia, ha apert Planet Farms, fattoria verticale automatizzata da 10mila m2. È fra le più grandi del mondo: a Copenaghen sta sorgendo Nordic Harvest, un impianto da 7mila m2. E poi c’è quella di AeroFarms a Newark (Usa): si estende su più piani in 6.500 m2.

In questa società ha investito anche Ikea, la multinazionale svedese del mobile. Mentre Jeff Bezos (Amazon) ed Eric Schmidt (Google) hanno puntato su Plenty, vertical farm robotizzata di San Francisco. Perché questa esplosione? «Il Covid ha reso le persone più attente al cibo salubre e al suo impatto ambientale», dice Sosso. Ma le ragioni sono più profonde.

VIDEO – La nostra visita alla vertical farm di Agricola Moderna

A chilometro zero. Secondo i suoi fautori, l’agricoltura verticale potrebbe risolvere molti problemi di oggi. I campi al chiuso non sono esposti a catastrofi naturali, al riscaldamento globale, agli insetti: quindi non occorre trattare le piante con fertilizzanti e antiparassitari tossici. Permettono di fare molti più raccolti durante l’anno, essendo sganciati dalle intemperie e dal ciclo delle stagioni: a parità di superficie, un m2 al chiuso produce 10 volte più di uno tradizionale (alcune specie fino a 500 volte di più).

Inoltre consentono di risparmiare molta terra e acqua grazie alle tecniche idroponiche e aeroponiche (v. grafico sotto): le radici delle piante, infatti, sono immerse in una soluzione acquosa o nebulizzate da uno spray umido di nutrienti. Niente consumo di terra, ridottissimo consumo di acqua. Senza contare che, sorgendo in città, queste fattorie abbattono le emissioni causate dai trasporti: sono davvero a chilometro zero.

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Le fattorie urbane consentono di produrre frutta e verdura in spazi ridotti: si possono definire agricoltura “indoor” (al chiuso, per esempio in capannoni dismessi), “vertical farm” (fattoria verticale, cioè a campi sovrapposti), “plantscraper” (grattacieli coltivati, al chiuso o sul tetto) e “deep farm” (in ex miniere).

L’azienda londinese Growing underground produce ortaggi in tunnel abbandonati della Seconda guerra mondiale. Una startup di Los Angeles, Local Roots, ha brevettato TerraFarms, container di 12 metri attrezzati come serre al chiuso, controllabili a distanza con uno smartphone. In Giappone usano molto anche i robot.

Lo schema di una vertical farm.

Una sfida in università. «Con le fattorie verticali», dice Dickson Despommier, professore emerito di microbiologia alla Columbia University, «potremmo assicurare al Pianeta un futuro più sostenibile. Tutta la terra risparmiata con questo sistema agricolo potrebbe tornare alla sua funzione ecologica naturale: assorbire la CO₂ e ossigenare il Pianeta attraverso le foreste. Entro il 2050, la popolazione mondiale aumenterà di circa 3 miliardi di persone, e quasi l’80% di loro abiterà in città. Per nutrire tutti quanti, saranno necessari 10 miliardi di ettari di nuova terra (il 20% in più del Brasile), riducendo la superficie delle foreste e producendo gas serra legati alle attività agricole». Sarà dunque l’agricoltura al chiuso a nutrire e a salvare il mondo? I tempi, come vedremo, non sono ancora maturi.

Despommier è il padre dell’agricoltura verticale, che è nata come sfida nella sua aula universitaria. Nel 1999, infatti, i suoi studenti, stanchi di occuparsi di parassiti e danni ambientali, gli avevano chiesto di trattare argomenti meno deprimenti. Despommier lanciò loro una sfida: calcolare quanti abitanti di Manhattan si sarebbero potuti nutrire con una dieta di 2mila calorie al giorno, sfruttando come superfici coltivabili i tetti del popoloso distretto di New York. Il risultato fu scoraggiante: con un totale di 52mila m2 di tetti, si poteva alimentare solo un migliaio di persone in tutto.

Allora Despommier allargò la prospettiva: perché, oltre ai tetti, non sfruttare anche gli spazi interni degli edifici, creando serre illuminate da grandi vetrate e luci artificiali? Una fattoria alta 30 piani avrebbe potuto produrre cibo per 50mila persone, ospitando campi di ortofrutta e allevamenti di polli e pesci nutriti con gli scarti vegetali. Era nata l’agricoltura verticale. «Anche se», precisa Matteo Benvenuti, autore di Introduzione alla vertical farm (Wolters Kluwer edizioni), «un’idea simile fu lanciata già nel 1984 dal biologo canadese John Todd, fondatore del New Alchemy Institute». Ma per rendere attuabile il progetto, occorreva un progresso tecnologico: avere lampade artificiali con cui irradiare le coltivazioni al chiuso con le stesse lunghezze d’onda del Sole. Un risultato reso possibile, a partire nell’ultimo decennio, grazie ai progressi nelle lampade Led, capaci di stimolare la fotosintesi di ogni diversa specie, con lunga durata e bassi consumi d’energia. Un campo su cui la Philips ha investito milioni in ricerca.

Orto idroponico

Un tecnico di YesHealth controlla le radici di un orto idroponico a Taiwan: sono immerse in una soluzione di acqua ricca di nutrienti. © YesHealth

Le fattorie al chiuso convengono ai Paesi con poca terra coltivabile. E a quelli con climi molto caldi o molto freddi

Alti investimenti, alta energia. Secondo l’agenzia finanziaria Bloomberg, il mercato agricolo verticale valeva 3,42 miliardi di dollari nel 2019 e potrebbe più che raddoppiare, raggiungendo i 7,3 miliardi, entro il 2025. Ma resta una modesta nicchia: secondo le stime di Cindy van Rijswick, della Rabobank Research Food di Utrecht (Paesi Bassi), le fattorie indoor contano nel mondo 30 ettari coltivati, contro gli 1,6 miliardi di ettari dell’agricoltura tradizionale.

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La strada è ancora lunga, ed è tutta in salita, per ostacoli tecnici e soprattutto economici. A partire dai costi di investimento: avviare una serra tradizionale costa circa 300 euro/m2, mentre per una vertical farm avanzata ne occorrono dai 2.000 ai 2.500. Senza contare gli oneri di gestione: «Il costo maggiore», dice Benvenuti, «è l’energia elettrica, che può incidere per oltre il 60% delle spese: le luci devono stare accese 12-18 ore al giorno per 365 giorni l’anno. E bisogna alimentare anche gli impianti di climatizzazione e d’irrigazione. Una fattoria di 500 m2 supera i 200 kW di potenza istantanea necessaria, pari a quella per alimentare 100 appartamenti». Se poi questa energia non arriva da fonti rinnovabili, l’impatto ambientale diventa pesante.

Questi costi incidono sul tipo di colture possibili: occorre scegliere piante basse (visto lo spazio limitato fra un pianale e l’altro di coltura) e «con un ciclo di crescita breve, per ottenere più raccolti in poco tempo», sottolinea Gabriella Funaro, esperta dell’Enea. «Il pomodoro, ad esempio, è poco redditizio perché cresce in 70 giorni contro i 20 della lattuga. E il riso necessita di ampie estensioni: il prezzo dei cereali è troppo basso per giustificare il ricorso all’indoor».

Pagnotta da 27 dollari. La sproporzione energetica fra una fattoria tradizionale e una al chiuso resta enorme: secondo il Politecnico Federale di Zurigo, per far crescere 1 kg di lattuga in una fattoria idroponica occorrono 4.166 kWh d’energia, mentre all’aperto ne occorrono solo 305.

Secondo Louis Albright, docente di ingegneria biologica ambientale alla Cornell University, una pagnotta di grano ricavato in una fattoria verticale costerebbe 27 dollari, contro gli 1,3 dollari di una prodotta con grano cresciuto all’aperto.

Ecco perché i primi passi di queste tecniche di coltura sono avvenuti in un ambito di sperimentazioni estreme: lo spazio. La tecnica aeroponica, infatti, fu inventata dalla Nasa per fornire verdure agli astronauti sulle navi spaziali. Gli esperimenti sono iniziati negli anni ’80, e ora il modulo di produzione vegetale “Veggie“, 8 kg di peso, è a bordo della Stazione Spaziale Internazionale: produce in orbita lattuga, cavoli e senape giapponese consumando solo 90 W di potenza.

Oggi, l’Enea di Roma ha ­creato HortExtreme, un orto per una futuristica base umana su Marte: 4 m2 dove sono coltivate 4 specie di microverdure con «un’alta densità di vitamine, sali minerali e antiossidanti per rinforzare la dieta degli astronauti», dice Eugenio Benvenuto della divisione biotecnologie di Enea.

Il modulo “Veggie”, in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale.

Il modulo “Veggie”, in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale. © Nasa

INSALATINE NEL DESERTO (E AL POLO). Sulla Terra, invece, le fattorie verticali si rivolgono a un mercato di nicchia, i consumatori disposti a spendere di più per avere insalate o fragoline coltivate senza chimica. Ma quanto di più? «Una confezione di 80 g di lattuga costa 1,6 euro, circa 20 euro al kg», risponde Sosso. «è un prodotto di fascia alta, a livello del biologico».

Ma riuscire a guadagnarci non è facile. Tanto che nel settore si sono registrati fallimenti epocali. In Svezia la società Plantagon voleva costruire il World Food Building, una fattoria al coperto alta 16 piani, per nutrire 5mila persone. I lavori, del costo di 40 milioni di dollari, sono iniziati nel 2018 e dovevano concludersi nel 2020. Ma nel 2019 la Plantagon ha dichiarato fallimento: non sarebbe riuscita a vendere i prodotti ai prezzi sperati. «Un progetto di queste dimensioni», ha ammesso il vicepresidente Owe Pettersson, «era troppo in anticipo sui tempi»

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Così, per far quadrare i conti, oggi l’agricoltura verticale punta a risparmiare sui costi o ad aumentare i margini di ricavo. «Enea ha avviato con Coldiretti di Padova il progetto Ri-Genera, per adibire a coltivazioni idroponiche i capannoni o gli edifici abbandonati», dice Funaro. Altri puntano su essenze ad alto reddito, mediche o cosmetiche: basilico sacro, papavero californiano, zenzero, zafferano.

Ma il grosso del mercato, per le fattorie verticali, è nei Paesi con poco suolo coltivabile: il Giappone, con oltre 200 aziende, è fra i leader mondiali del settore. E anche la Cina, che ha perso 123mila km2 di terreno agricolo per l’urbanizzazione massiccia, più altri 200mila km2 non coltivabili perché inquinati.

E sta prendendo piede nei Paesi dove il clima rende proibitiva la coltivazione all’aperto: a Dubai, la Emirates Airlines sta costruendo una fattoria verticale di 12mila m2 per fornire verdure fresche a tutti i suoi aerei. Il governo degli Emirati sta investendo 100 milioni di dollari nei progetti indoor: il clima desertico e la mancanza di terra coltivabile costringe oggi il Paese a importare l’80% del cibo.
E lo stesso vale per i luoghi freddi. Oltre al Nordic Harvest in Danimarca, al Polo Sud c’è la Food Growth Chamber, una stanza che fornisce verdure fresche ai 65 dipendenti della Base di ricerca Amundsen-Scott: per coltivare lattuga quando fuori fa 70 °C sotto zero.

Agricolture a confronto

[In neretto i contro; in corsivo i pro]

 

ALL’APERTO

AL CHIUSO

1,6 miliardi di ettari coltivati nel mondo (80% del suolo terrestre coltivabile)

30 ettari coltivati in tutto il mondo. Resa di 1 ettaro indoor = 10 ettari tradizionali

50% delle colture non vengono raccolte

90% delle colture piantate sono raccolte

Uso intensivo di pesticidi (e solo lo 0,1% colpisce gli insetti; il resto finisce nell’ambiente)

0% di pesticidi

Rischio di attacchi di parassiti (insetti,
uccelli, roditori)

Ridottissimo rischio di attacchi di parassiti

70%: percentuale di acque dolci terrestri usate a scopi agricoli (e il 50-80% di essa si disperde fra evaporazione e perdite idriche)

Meno 70-95% di acqua necessaria
(utilizzando idroponica o aeroponica)

2.400 km: distanza media che un cibo percorre per arrivare sulla nostra tavola (causando inquinamento)

km 0: le fattorie verticali sorgono già in città

Soggetta a cicli stagionali e intemperie climatiche

Non soggetta a cicli stagionali o intemperie climatiche. E si possono coltivare contemporaneamente diversi tipi di colture

Emissioni di CO₂ dovute all’uso di trattori

Nessun impiego di trattori, ma l’uso elevato  di energia elettrica ha un altissimo impatto ambientale (se non viene da fonti rinnovabili)

Possibilità di coltivare qualunque specie

Numero limitato di specie coltivabili: piante piccole, a crescita rapida e che non devono essere impollinate da insetti

Costo al m2 molto basso

Costo al m2 elevato (anche 800 volte più)

Fabbisogno energetico: per una serra, 250 kWh di energia all’anno per ogni m2

Costi energetici elevati: per una fattoria verticale, 3.500 kWh all’anno per ogni m2

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