Quando i robot entrarono in sala operatoria

Un capannello di medici attorno al tavolo operatorio, il chirurgo protagonista assoluto al centro della scena: nella sala operatoria degli anni ’90 gli occhi di tutti erano ancora puntati sulle mani del luminare di turno, anche se i macchinari per l’imaging come ecografie e Tac cominciavano ad affollarsi attorno al paziente, la chirurgia laparoscopica era già diffusa e accanto a bisturi e suturatrici si stavano facendo spazio strumenti sempre più tecnologici. E pure la vera novità, quella che avrebbe rivoluzionato la chirurgia di lì a pochi anni, si era già affacciata in sala operatoria. 

I primi chirurghi robot. Lo avevamo raccontato, nel 1992, su Focus, descrivendo come i robot di allora stessero iniziando a replicare una per una le funzioni degli umani, dagli occhi ai nasi elettronici: accanto ai robot per fare le pulizie o capaci di suonare il pianoforte c’erano già “androidi” che avevano mosso i primi passi accanto ai chirurghi. In realtà visto con gli occhi di adesso il Robodoc dell’ospedale Sutter General di Sacramento, che dopo aver immobilizzato il suo paziente con tre delle sue otto braccia aveva inserito un chiodo di titanio nel femore, fa quasi tenerezza; lo stesso vale per PUMA 200, il primo robot a essere mai stato usato in neurochirurgia nel 1985. Erano entrambi molto semplici, ma allo stesso tempo qualcuno ipotizzava un futuro in cui robot umanoidi avrebbero sostituito il chirurgo in carne e ossa.

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La realtà è andata un po’ diversamente ma da allora sono stati fatti passi da gigante e oggi in sala operatoria i robot ci sono eccome, anche se nessuno li scambierebbe per una persona. L’obiettivo, all’inizio, era avere “chirurghi di guerra”: i robot chirurgici erano stati pensati e sperimentati nei decenni passati dai medici militari per operare negli ospedali da campo, cioè in situazioni dove difficilmente c’era il super-esperto di volta in volta necessario. Un chirurgo-robot manovrabile a distanza dal medico in carne e ossa, al sicuro lontano dal teatro di guerra, pareva la soluzione migliore e proprio in questo senso sono state pensate le prime piattaforme robotiche.

La chirurgia robotica in Italia. Poi però si è capito che potevano essere preziosissime anche e soprattutto in ambiti “civili”: le operazioni a distanza negli anni ’80-’90 erano poco praticabili a causa delle imprecisioni nella trasmissione dei segnali da remoto, ma i bracci robotici potevano essere un discreto valore aggiunto per le mani del chirurgo, per renderle sempre più precise ed efficienti. E il primo a capirlo in Italia fu Aldo Cerruti che su questo dispositivo fondò ab medica, azienda allora pioniera e oggi, guidata da Francesca Cerruti, leader nel settore delle tecnologie e dei dispositivi medicali.

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Le prime applicazioni sbalordirono chi c’era: Franca Melfi, docente di chirurgia toracica dell’Università di Pisa e direttrice del Centro Robotico Multidisciplinare dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa, ancora ricorda bene quando a Bruxelles, nel 1998, vide per la prima volta un intervento eseguito con da Vinci, il primo robot-chirurgo a essere stato approvato per uso clinico. «Era un intervento di bypass aorto-coronarico: inizialmente per i robot si erano pensate soprattutto applicazioni di cardiochirurgia, perché è un settore in cui serve la massima precisione e si deve operare in piccoli spazi. Il sistema robotico da Vinci lo consente, garantendo anche un’ottima visione del campo operatorio: di fatto nacque come un’evoluzione e un superamento della chirurgia laparoscopica, che allora veniva ancora considerata una chirurgia di nicchia.

Il robot da Vinci permetteva di intervenire con un minor trauma sui tessuti, perché gli accessi per telecamere e strumenti operatori restano piccoli come in laparoscopia, ma al contempo la modalità operatoria è più naturale per il chirurgo, che guarda il campo operatorio nello schermo della console e guida a distanza con un joystick i bracci robotici muovendoli come se fossero le sue mani.

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Il successo del robot da Vinci. Due anni dopo la Food and Drug Administration approvò il robot da Vinci per l’uso in clinica e a Pisa si decise di investire per portarlo nel Policlinico universitario, con grande gioia di Melfi: «Quella piattaforma era il massimo, perché ci garantiva i vantaggi della chirurgia mininvasiva laparoscopica superandone i limiti. Inizialmente era appannaggio dei soli cardiochirurghi, che però pian piano l’hanno abbandonata. Così l’abbiamo potuta applicare per la prima volta al mondo sul tumore al polmone». Era il 2001: da lì in poi il robot-chirurgo ha trovato sempre nuovi spazi e applicazioni e oggi, dopo vent’anni, in sala operatoria è una garanzia.

Fonte: focus

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