Perché non riusciamo a staccarci dalla nostalgia per la Serie A anni ’90?

Abbiamo parlato con Tommaso Guaita di 45-90, un viaggio tra Ronaldo, van Basten e le storie di provincia.

Ci sono Ronaldo il Fenomeno e Van Basten, i primi passi di Del Piero e Totti, Zidane, Batistuta e il “matto” Asprilla. Ma anche il fallimento del Napoli, il Vicenza di Guidolin, le denunce di Zeman sul doping, Recoba e la dinastia degli attaccanti di provincia, il Foggia dei miracoli e la saggezza distillata di Boškov. 45/90 (66thand2nd) è un bignami dell’età dell’oro della Serie A, quando il nostro calcio dominava il mondo. L’ha scritto Tommaso Guaita, che ha raccolto 45 storie più o meno felici, più o meno pulite, di quell’epoca, ciascuna introdotta da un’illustrazione. E il filo che lega questi racconti da quattro pagine l’uno, dice, è la nostalgia. Lo abbiamo intervistato.

4590, libro di 66thand2nd
COURTESY: 66THAND2ND

Come nasce l’idea dietro 45/90?

Lavorando come ghostwriter per gli sportivi, negli ultimi anni mi è capitato di raccogliere storie a tema Serie A degli anni novanta, che per me che sono nato nel 1984 coincide con l’infanzia e l’adolescenza. Ho tanti ricordi felici: io che torno da scuola e mi metto a “studiare” la Gazzetta dello Sport, la sicurezza di sapere che le partite si sarebbero giocate tutte la domenica pomeriggio. All’inizio pensavo a una pagina Instagram, con illustrazioni e post che raccontassero ogni volta una storia diversa, ma mi sono reso conto che i social li uso poco e che, in generale, non ne valeva la pena. Ho pensato piuttosto a un libro ‒ le cui storie richiedono, ovviamente, un’elaborazione diversa ‒ e quando ci siamo trovati con 66thand2nd il gioco era fatto.

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Come hai scelto le storie da raccontare?

All’inizio dovevano essere novanta, quindi 90/90. Ma il risultato sarebbe stato troppo impegnativo, da 700 pagine, e abbiamo dimezzato: 45/90, come il primo tempo di una partita; non escludo che, se il libro andrà bene, scriverò il secondo tempo. Le storie sulla Serie A di quegli anni, in effetti, non mancano. Per ora ho scelto le più iconiche: la fine di Maradona, i campioni assoluti Van Basten e Ronaldo, gli attaccanti di provincia, la Juventus di Lippi, i gol di Signori, Baggio ai Mondiali del 1998. L’ordine è casuale, si può leggere come fosse una raccolta di pillole.

Che epoca è stata, quella, per la Serie A?

Un’epoca di splendore, il decennio in cui il nostro campionato entra da dominatore assoluto. Già alla fine degli anni ottanta, infatti, le squadre italiane vincevano tutte le coppe europee, ma con i novanta la supremazia diventa totale anche dal punto di vista del mercato. I migliori venivano a giocare da noi, anche nelle squadre piccole, pensiamo ad Hagi al Brescia. Ma anche il trasferimento di Zamorano all’Inter, nel 1996, è indicativo: era l’attaccante di riferimento del Real Madrid, eppure fu accolto come un acquisto dei tanti; oggi non andrebbe così.

Come avevamo fatto ad arrivare così in alto?

Mi spiace dirlo, ma la spinta decisiva è stata quella di Berlusconi. Quando ha acquistato il Milan, nel 1986, ha immesso nel calcio dei capitali prima inimmaginabili, che hanno reso la Serie A il “campionato più bello del mondo”. Dal punto di vista sportivo, il paragone con la Premier League attuale è calzante. Però gli inglesi sono un esempio virtuoso della gestione dei conti, la Serie A di allora nasce da politiche finanziarie spericolate. Sensi, Tanzi, Cragnotti e gli altri presidenti hanno costruito imperi sportivi sui debiti, perché era opinione comune ‒ e il modello, qui, è Berlusconi ‒ che per avere il potere, in Italia, all’epoca servissero un’azienda, agganci politici e un club di calcio. Finché il gioco ha retto, eravamo i migliori al mondo.

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Però, ecco, è il caso di fugare un equivoco: proprio a fronte di tutto ciò, bisogna dire che quello che chiamiamo “calcio romantico” negli anni novanta era già bello che morto. La sua fine, se vogliamo, è lo scudetto della Sampdoria nel 1991. Poi non c’è più niente di romantico.

Quali sono, secondo te, i momenti chiave di quegli anni?

L’inizio, per me, è la squalifica di Maradona per doping nel 1991, mentre la conclusione è lo scudetto della Lazio del 2000. Sostanzialmente, comunque, parliamo di un’epoca di transizione da tanti punti di vista. Dal punto di vista tattico, dopo la rivoluzione di Sacchi al Milan, dal 1987 al 1991, gli anni novanta sono il momento in cui si abbandona l’idea del calcio sparagnino e la tattica comincia a diventare la principale ossessione degli allenatori, in una sorta di anticamera allo sport iper-tattico che vediamo oggi in tv. Al tempo stesso, con l’arrivo dei soldi e delle televisioni ‒ e qui c’entra sempre Berlusconi, che ha trasformato il calcio in puro intrattenimento ‒ anche i calciatori diventano persone meno “semplici”: pensiamo a Lentini, considerato per il stile di vista una specie di prototipo del calciatore moderno.

I personaggi simbolo di quella stagione, però, sono due calciatori, cioè George Weah e Ronaldo il Fenomeno. Ci hanno traghettati nel futuro, perché sono riusciti a coniugare atletismo e prestanza fisica a una tecnica e una velocità fuori dal comune. Adesso sembrano caratteristiche quasi scontate, ma allora non era così.

La Serie A degli anni novanta è anche un momento di rimpianti, però. Non abbiamo neanche vinto un Mondiale.

Sì, si sarebbe potuto fare di più da tanti punti di vista. Intanto, con una gestione finanziaria meno spericolata probabilmente avremmo potuto allungare nel tempo il nostro dominio; così non è stato, ed è un peccato. Siamo stati sorpassati dalla Premier League, che negli anni novanta era indietro rispetto a noi. Ma gli inglesi hanno capito come rendere appetibile il loro prodotto nel mondo, mentre noi non ci siamo neanche posti il problema, ed ecco i risultati. Al tempo stesso, potevamo vincere di più: è il caso delle due finali di Champions League perse dalla Juventus di Lippi, ma anche appunto della Nazionale, che nel 1990 e nel 1994 ha pagato delle scelte tattiche un po’ miopi e della sfortuna.

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Il tempo addolcisce i ricordi: alla fine, dici, è stata un’epoca di scandali e scorrettezze.

Al di là dei grandi capitali, è stato un momento in cui è stato compiuto ogni illecito possibile. Sia dal punto di vista finanziario, con società costruite sui debiti e, prima ancora, affidate a faccendieri della Prima Repubblica, poi diventati presidenti di squadre ‒ Borsano al Torino, Ciarrapico alla Roma ‒ e infine spazzati via da Mani Pulite. E sia dal punto di vista sportivo: tra gli scandali che poi daranno origine a Calciopoli, il doping, le pressioni sugli arbitri e il resto, ce n’è per tutti i gusti. Ci tenevo a raccontare anche questi aspetti, come per esempio nel capitolo Il calcio in farmacia, sulla denuncia di Zeman riguardo il presunto abuso di farmaci, nell’estate del 1998.

Come mai non riusciamo a liberarci dalla nostalgia di quegli anni?

In generale, nella moda, nel cinema e in molti altri campi vedo un ritorno del vintage e degli anni novanta: credo sia ciclico e globale, e questo nel nostro piccolo dà una spinta alla nostalgia del calcio dell’epoca in Italia. Per il resto, però, credo dipenda dal fatto che siamo un paese che sta invecchiando anche solo a livello anagrafico, che preferisce guardare al passato e cercare sicurezze lì. Il presente e il futuro non sono in mano nostra, e forse neanche ci interessano. Ma alla fine è anche mia, è il filo conduttore delle storie che ho raccontato. Io per primo ‒ vuoi, di nuovo, per motivi di età ‒ ho nostalgia di quei momenti, pur conscio di ciò che c’era dietro. È come quando ti prende fuoco casa: non è che porti in salvo la lavatrice, ma le foto di famiglia. E io, mentre la Serie A di oggi arranca ed è funestata da scandali e debiti, con 45/90 ho messo in salvo le foto dei momenti felici del calcio italiano: gli anni novanta.

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